LA BASSA DI IERI · «Sugar paludi» per far risaie

Moltissime opere di bonifica sono legate ai nomi di nobili veronesi, padovani e veneziani che dal Quattrocento in poi trasformarono il territorio – Un paesaggio geometrico e produttivo

Un tipico paesaggio della «bassa» verso le valli. Fossato, pioppi e salici costituiscono elementi della campagna veneta di terraferma: delimitavano i «quarti» e sostenevano le rive dei canali

Numerose erano le famiglie patrizie che avevano beni nella nostra bassa: alcune veronesi, altre veneziane e padovane. Diversi banchi logori della chiesa di Angiari, Cerea, Sustinenza, Boschi S. Anna, Casaleone portano ancora impressi i segni della nobiltà. E con i loro nomi rivive il ricordo di storie e imprese che hanno esteso canali di bonifica, sostegni fluviali, scoli, seriole, e dugali per le colture del riso, del tabacco e del frumento, e corti rurali che testimoniano un mondo agricolo utile e fecondo.

Dall’Adige al Tartaro il territorio è sempre stato da sanare con un lavoro arduo e faticoso da parte dell’uomo. Il Tartaro, il Tregnone, il Menago costituirono appunto alcuni bacini meglio sfruttati. Nelle valli del Tartaro troviamo antichissime «corti» di Benassuto e Leonardo Montanari a Pradelle, di Romanin Jacur a Maccacari, del Michiel alla Borghesana, di Antonio Cavalli a Campalano con il loro nucleo padronale; del Basadonna con sostegni fluviali sul Tartaro per l’irrigazione dei loro poderi.

Nel Quattrocento la Bassa era il territorio, assieme al Polesano, maggiormente attanagliato dalle paludi. Lungo il corso del Tione e del Tartaro, fino a Ponte Molino, predominavano vaste plaghe di acquitrini, quidi la grande estensione delle valli. Da Pradelle a Roncanova i Giusti, gli Olivetani di S. Maria in Organo, i Bevilacqua, i Serego furono impegnati in varie opere (vol. B. Pop.) “de arzeri e fossi facti verso il bastion de le Zinzale per sugar palude e far boni pradi». Dettero un duro colpo all’incolto boschivo e paludivo, ancora tanto diffuso, le famiglie Lando e Levà di Sopra, i Campagna a Barabò di Nogara, i Dal Borgo a Borghesana, i Rossi di S. Secondo e i Belgioioso nelle valli di Castagnaro; i Sambonifcaio, Lazise, Buri, Moscardo in quelle di Villa Bartolomea. Nel feudo di Gazzo i Giusti avevano provveduto a scoli e arginature dal 1494.

Gli ottantenni (salariati in pensione) alle dipendenze dei Treves alla «Bragadina» in una foto del ’41 durante l’ultima galdega dei risari sull’aia della «Rosta». Erano granaristi, risai, ortolani, bovai, cavallari, guardiani, falegnami, ferrari, motoristi. Tra loro Luigi Mutti, Angelo Rossini, Vittorio Borin, Pietro Cavallaro, Giuseppe Marchiotto, Emilio Borasca, Antonio Cappello, Albino Marangoni, Giovanni Berro, Emilio Frangini, Augusto Lonardi, Augusto Pallotto, Angelo Bertazza, Francesco Ramazzotto, G. Righetti, Girolamo Filippi

La coltura risicola comportava un dispiegamento di mezzi – seriole, pile, sostegni, ponti – che taluni chiamarono «avanzante capitalismo agrario». Sul confine mantovano, partendo dal Tartaro, i Rimbaldo avevano immense risaie. Ma vi erano anche i Cagalli, Priuli, Zanetto Capello. Coltivato su terreno, coperto da una spanna d’acqua, il riso apparve per la prima volta a Zevio e Palù nel 1528 per opera del marchese Teodoro Trivulzio e da allora trovò vasta estensione nella pianura, impaludata da secoli, tra il Tartaro e l’Adige. Le aree più produttive erano quelle di Zevio, Isola della Scala, San Pietro, Casaleone, Villa Bartolomea, Castagnaro ovvero tutta la zona attorno le valli veronesi. Alla metà del Cinquecento il prodotto era definitivamente affermato.

A S. Pietro di Legnago il nobile veneziano Giacomo Giustinian aveva una «possessione» di 100 campi di risaia con annessa pila per riso. La Bragadina, già della famiglia dogale del Bragadin, poi Treves, ora Centin, conserva attorno al palazzo con torre, le ampie barchesse, la cappella, l’aia vastissima delimitata dal porto fluviale interno per il trasporto del riso via acqua. Bragadin facea lavorare 198 campi per i quali dichiarava sacchi 1096 di riso grezzo; altra proprietà di campi 630 dei quali dichiarava di aver ricavato, nel 1736, minali 902 di frumento. Alla Rosta, già Bragadin, l’ancor più ampia aia e delimitata da pile e barcagni con il ponticello in cotto che richiama talune costruzioni lagunari veneziane.

A Vangadizza nella borgata Pisani, c’è ancor la Fossa omonima che serviva per il trasporto del riso coltivato nei quarti, arrivava ai depositi su barche trainate da cavalli. Nella corte Pompei-Perez-De Berti esiste altra vasta aia in cotto come pure l’antico alveo della Fossa che costeggia la cinta muraria, ove approdavano le barche colme di riso.

Un bellissimo stemma gentilizio su un ponte sul Tregnone ai Bonzanini, nei pressi della «Borghesana» di Casaleone

A Vigo lo stabile Marchesa era posseduto nel 1500 dai fratelli Bartolomeo e Piero Donà, nobili veneziani. Nel 1589 ebbero dalla repubblica di Venezia una investitura a risaia di circa 510 campi veronesi e nel 1642 un privilegio di due pile da riso; nel 1809 altra investitura a Donà-Accordi riguardante l’irrigazione di 965 campi (arch. Fioroni). Anche la Concola antico possesso della chiesa di S. Bartolomeo della Levata di Verona conserva ancora l’architettura veneta del Cinquecento quando le case avevano tutte la loro torre e si articolavano su di un solo piano con soprastante granaio.
Notevoli opere di bonifica furono effettuato in Val Verde dalla nobile famiglia Balbi di origine veneziana. La famiglia Balbi diede parecchi provveditori per il governo della fortezza di Legnago: Eustachio nel 1593, Zaccaria nel 1630-31, Paolo nel 1721, Barbarigo nel 173435-36, Antonio nel 1749, Domenico nel 1798, Angiolo Maria dal 1793 al 1798 (annotati dal Boscagin).

Nel Cinquecento i Cagalli (maestro Gaspare Cagalli nel 1532 aveva aperto una farmacia a Legnago) possedevano lungo il Tregnone quattro fabbriche murate e trasformarono 320 campi a risaia. Pure i Boldiero ampliarono gli irrigui con una seriola di duemila pertiche (su proposta ai Provveditori agli Inculti che avevano assunto tutte le concessioni). Famiglia facoltosa i Boldiero, Scipione Maffeo scrisse che Gherardo Boldiero fu medico lodatissimo, e Tommasio Bovio afferma che Gherardo meritò un decreto del Senato Veneto perché fosse chiamato Principe de’ Medici.

La località Morande, Morandine ad est di Casaleone, derivano probabilmente dai patrizi Morando. Ad est di S. Teresa in valle, verso il Tartaro, i Serego avevano terre con seriole e dugali tuttora portanti i loro nomi.

Le valli sono tuttora bagnate anche dalla Sanuda (forse trae origine dalla famiglia veneziana Sanudo) proveniente dai dintorni di Buttapietra, scende a sustenenza, sbocca nel Tregnone sotto alla Borghesana. Vi scorre anche la Fossa Canossa fatta escavare dai marchesi Canossa. Nota fu la irrigazione con la conseguente messa a risaia derivando acque dal Menago a mezzo della fossa Boldierona, e tulizzando le acque del Boldier e del Corno riuniti. L’opera si ottenne nel Settecento con la costruzione di una botte a sifone sotto il Menago in S. Zeno di Cerea, distogliendo la portata del Corno che prima si gettava nel detto fiume. E da allora il Corno – scrisse il Bresciani – cambiò nome e prese l’appellativo di Canossa.

A Cerea e a Casaleone nel 1700 erano zone di grandi proprietà terriere. Una di queste era del nobiluomo Zuanne Widmann con 1098 campi. Altra possessione era di Zuanne Loredan formata da 903 campi a Casaleone con risaie e pile. Queste famiglie (quasi tutte avevano provveditori veneti a Legnago) possedevano ampie distese fondiarie con al centro la «corte» e la sua imponenza rispondeva alla reale dimensione della fattoria, i cui sostegni, roste, pile, seriole spiegano l’enorme prevalenza per la produzione del riso. Di queste superstiti attività artigianali risultano ancora segnate sulle Carte al 25 mila: «Pila», «Piletta» alla Ravagnana di Casaleone, alla Pozza di Cerea, a Vigo, a Spinimbecco di Villa Bartolomea. La scelta della risaia creò il tipico paesaggio geometrico e piatto e non a caso le mappe cinquecentesche evidenziano l’assiepamento delle contrade nel raggio d’azione della «corte», in cui i corsi d’acqua erano determinanti.

Ernesto Berro

[Dall’Arena del 24 agosto 1984]