L’eremita, il suo gatto e San Gregorio

di Giampaolo Donini

Quidam Eremitarum, vir magnae virtutis, qui nihil in mundo possidebat praeter unam cattam, quam blandiens crebro quasi cohabitatricem in suis gremiis refovebat, orasse fertur ad Dominum, ut sibi ostendere dignaretur, quam futurae remunerationis mansionem sperare debuisset, qui pro illius amore saeculum deferens, nil ex eius divitiis possideret. Cumque nocte quadam dormiret, cognoscit sibi revelatum fuisse, ut cum Gregorio Romano Pontifice mansionem sibi praeparandam sperare debuisset. At ille fortiter ingemiscens, parum sibi profuisse voluntariam rerum inopiam, tantaque suae remotionis ieiunia putabat, si cum eo mansionem reciperet, qui tantis mundialibus divitiis redundaret. Cum vero Gregorianas divitias suae paupertati die noctuque suspirando conferret, alia nocte quiescens, audivit sibi Dominum in somniis dicentem: Quando divitem non possessio divitiarum faciat, sed cupido; cur audes paupertatem tuam Gregorii divitiis comparare, qui magis illam cattam quam habes, quotidie palpando, nullique conferendo, diligere comprobaris, quam ille, qui tantas divitias non amando, sed contemnendo, cunctique liberaliter largiendo, dispersit? Ita solitarius increpatus Deo gratias retulit: et qui meritum suum decrevisse putaverat, si Gregorio conferretur; orare vehementius coepit, ut cum eo mansionem quandoque percipere mereretur.

Giovanni Diacono, Vita di San Gregorio Magno, IX sec.

Trad.: «Un eremita, uomo di grande virtú, che nulla possedeva al mondo se non un gatto che carezzava di continuo e faceva viver seco tenendolo in grembo, pregò il Signore affinché si degnasse di mostrargli quale posto avrebbe dovuto sperare come ricompensa futura, poiché egli non possedeva nessuna ricchezza del mondo e anzi se ne allontanava per amor di Lui. Una notte, mentre dormiva, gli fu rivelato che avrebbe dovuto sperare di ricevere un posto che gli si andava preparando accanto al pontefice romano Gregorio. Egli allora prese a lamentarsi grandemente e riteneva che a nulla gli avessero giovato l’indigenza volontaria e i tanti digiuni fatti nel suo ritiro, se gli si destinava un posto accanto a lui, che abbondava di tante ricchezze mondane. Cosí egli seguitava notte e dí a paragonare la sua povertà alla dovizia di Gregorio, finché, un’altra notte, mentre riposava, udí in sogno il Signore che gli disse: ‹Poiché non il possesso di ricchezze rende ricchi, bensí la brama di quelle, perché ardisci paragonare la tua povertà alla dovizia di Gregorio, dacché tu chiaramente ami il gatto che tieni con te, che accarezzi tutt’i giorni, e che non cedi a nessuno piú di quanto non faccia egli colle sue ricchezze, che non ama, anzi disprezza, distribuisce, elargisce a tutti con generosità?›. Rampognato in tal guisa, l’eremita rese grazie a Dio: e come colui che aveva ritenuto che il merito suo scemasse a riscontro di Gregorio, cominciò a pregare con maggior vigore per meritare, a suo tempo, di ricevere il suo posto accanto a colui».


CATTA, s.f., «gatto». È difficile capire se sia da considerare un femminile epiceno (come il greco moderno γάτα o il tedesco Katze) o se il genere femminile rispecchi il sesso. Dal contesto del brano non ricaviamo sufficienti indizi per stabilire che quel gatto fosse una femmina; anzi, probabilmente con catta si vuol semplicemente dire gatto, senza riguardo al sesso. La parola cattus o catta, passata poi in tutte le lingue moderne d’Europa, in latino era rara, e si presentava come forestierismo, forse un semitismo: un fatto che riflette la storia stessa dell’animale nel mondo classico (si veda Francis D. Lazenby, Greek and Roman Household Pets, The Classical Journal, Vol. 44, No. 5 (Feb., 1949), pp. 299-307).