Collettanea

Appunti in ordine sparso

Mese: settembre, 2022

L’eremita, il suo gatto e San Gregorio

Quidam Eremitarum, vir magnae virtutis, qui nihil in mundo possidebat praeter unam cattam, quam blandiens crebro quasi cohabitatricem in suis gremiis refovebat, orasse fertur ad Dominum, ut sibi ostendere dignaretur, quam futurae remunerationis mansionem sperare debuisset, qui pro illius amore saeculum deferens, nil ex eius divitiis possideret. Cumque nocte quadam dormiret, cognoscit sibi revelatum fuisse, ut cum Gregorio Romano Pontifice mansionem sibi praeparandam sperare debuisset. At ille fortiter ingemiscens, parum sibi profuisse voluntariam rerum inopiam, tantaque suae remotionis ieiunia putabat, si cum eo mansionem reciperet, qui tantis mundialibus divitiis redundaret. Cum vero Gregorianas divitias suae paupertati die noctuque suspirando conferret, alia nocte quiescens, audivit sibi Dominum in somniis dicentem: Quando divitem non possessio divitiarum faciat, sed cupido; cur audes paupertatem tuam Gregorii divitiis comparare, qui magis illam cattam quam habes, quotidie palpando, nullique conferendo, diligere comprobaris, quam ille, qui tantas divitias non amando, sed contemnendo, cunctique liberaliter largiendo, dispersit? Ita solitarius increpatus Deo gratias retulit: et qui meritum suum decrevisse putaverat, si Gregorio conferretur; orare vehementius coepit, ut cum eo mansionem quandoque percipere mereretur.

Giovanni Diacono, Vita di San Gregorio Magno, IX sec.

Trad.: «Un eremita, uomo di grande virtú, che nulla possedeva al mondo se non un gatto che carezzava di continuo e faceva viver seco tenendolo in grembo, pregò il Signore affinché si degnasse di mostrargli quale posto avrebbe dovuto sperare come ricompensa futura, poiché egli non possedeva nessuna ricchezza del mondo e anzi se ne allontanava per amor di Lui. Una notte, mentre dormiva, gli fu rivelato che avrebbe dovuto sperare di ricevere un posto che gli si andava preparando accanto al pontefice romano Gregorio. Egli allora prese a lamentarsi grandemente e riteneva che a nulla gli avessero giovato l’indigenza volontaria e i tanti digiuni fatti nel suo ritiro, se gli si destinava un posto accanto a lui, che abbondava di tante ricchezze mondane. Cosí egli seguitava notte e dí a paragonare la sua povertà alla dovizia di Gregorio, finché, un’altra notte, mentre riposava, udí in sogno il Signore che gli disse: ‹Poiché non il possesso di ricchezze rende ricchi, bensí la brama di quelle, perché ardisci paragonare la tua povertà alla dovizia di Gregorio, dacché tu chiaramente ami il gatto che tieni con te, che accarezzi tutt’i giorni, e che non cedi a nessuno piú di quanto non faccia egli colle sue ricchezze, che non ama, anzi disprezza, distribuisce, elargisce a tutti con generosità?›. Rampognato in tal guisa, l’eremita rese grazie a Dio: e come colui che aveva ritenuto che il merito suo scemasse a riscontro di Gregorio, cominciò a pregare con maggior vigore per meritare, a suo tempo, di ricevere il suo posto accanto a colui».


CATTA, s.f., «gatto». È difficile capire se sia da considerare un femminile epiceno (come il greco moderno γάτα o il tedesco Katze) o se il genere femminile rispecchi il sesso. Dal contesto del brano non ricaviamo sufficienti indizi per stabilire che quel gatto fosse una femmina; anzi, probabilmente con catta si vuol semplicemente dire gatto, senza riguardo al sesso. La parola cattus o catta, passata poi in tutte le lingue moderne d’Europa, in latino era rara, e si presentava come forestierismo, forse un semitismo: un fatto che riflette la storia stessa dell’animale nel mondo classico (si veda Francis D. Lazenby, Greek and Roman Household Pets, The Classical Journal, Vol. 44, No. 5 (Feb., 1949), pp. 299-307).


Virgilio, Eneide, I 34-123, Saggio

Di Meghan Reedy (Dickinson College)

Ai profughi troiani possiamo dare soltanto una fugace occhiata ai versi 34-35. Stanno veleggiando allegramente al largo della costa siciliana: Vix e conspectu Siculae telluris in altum vela dabant laeti et spumas salis aere ruebant. Ma poi la riflessione di Giunone e le sue conseguenze si prendono la scena.

Nel suo monologo, Iuno … haec secum (vv. 36-7), Giunone attribuisce la sua frustrazione di non riuscire, al momento, a impedire ai Troiani d’insediarsi in Italia (Mene incepto desistere victam nec posse Italia Teucrorum avertere regem? v. 38) alla sua gelosia verso un’altra dea, Minerva (Pallasne …, vv. 39-49). Ella ricorda come Minerva dette alle fiamme la flotta argiva (e gli argivi sono cari a Giunone, caris … Argis, I v. 24) e ne fece annegare i marinai, per colpa d’Aiace d’Oileo, che stuprò Cassandra (Pallasne urere classem Argivum atque ipsos potuit summergere ponto unius ob noxam et furias Aiacis Oilei? vv. 39-41). Anche il modo in cui lo fece offende Giunone: Minerva scagliò ella stessa la saetta di Giove e fiaccò le navi suscitando una tempesta (ipsa, Iovis rapidum iaculata e nubibus ignem, disiecitque rates evertitque aequora ventis, vv. 42-3). Colpí lo stesso Aiace con un fulmine, lo fece inghiottire da un vortice d’aria e lo schiacciò contro uno scoglio aguzzo, illum exspirantem transfixo pectore flammas turbine corripuit scopuloque infixit acuto (vv. 44-5). Giunone si lamenta perché ella, sorella e moglie di Giove, ne scapita in reputazione non essendo capace di fare altrettanto (vv. 46-9).

Ciò che seguirà pare essere un tentativo di porre rimedio a entrambe le cose in un sol colpo: Giunone userà i suoi metodi per suscitare una violenta tempesta, imitando cosí la vendetta di Minerva su Aiace e arrestando l’avanzata dei Troiani. Ma ci sono differenze evidenti.

Se Minerva aveva abusato dell’emblema del potere, dell’arma caratteristica di Giove, la saetta (rapidum… ignem v. 42), Giunone abusa del di lui potere «burocratico». Ci viene raccontato, ai versi 58 e 59, che i venti, lasciati infuriare liberamente, distruggerebbero tutto ciò che trovano. Per tema di ciò, Giove li fece imprigionare sotto un monte, e fece vigilare su di loro un re suo vassallo, Eolo, che li sprigiona di volta in volta secondo il volere di colui (vv. 61-63). E proprio questo re, Eolo, sarà corrotto da Giunone (vv. 65-75) affinché li liberi tutt’insieme.

Vorrei ora concentrare l’attenzione su due aspetti apparentemente minori, ma utili a orientarci non soltanto in questa scena, bensí anche nel quadro piú ampio della narrazione.

Il primo è il modo in cui Giunone e Giove sono rappresentati in contrasto fra loro. Al verso 23, quando Virgilio elenca le ragioni per cui Giunone è tanto adirata, riassume nel concetto di paura la sua reazione alla notizia secondo cui la progenie dei Troiani era destinata dal Fato a distruggere Cartagine: id metuens… E al verso 3 e poi ancora ai versi 29-32 apprendiamo come, a cagione della sua ira, provocata (in parte) da tale paura, ella scaraventi i Troiani in mezzo ai marosi ogni volta che può (multum ille… iactatus et alto v. 3; iactatos aequore… errabant… maria omnia circum vv. 29-32). Ma anche Giove prova timore, come si dice esplicitamente al verso 61: hoc metuens. La sua, tuttavia, è la paura d’involontarie tempeste (vv. 58-59). E vi reagisce con un freno sia fisico (imprigiona i venti in una montagna, v. 61) sia legale (stringe un patto con un re, attraverso un foedere certo, v. 62). Egli esercita dunque ciò che potremmo chiamare restrizione preventiva, mentre Giunone si sente spinta a provocare un disastro preventivo. Entrambi agiscono per paura.

In secondo luogo, questo contrasto fra Giunone e Giove non è uno scontro tra loro. Essi non agiscono in un medesimo tempo: Giove si è accordato con Eolo (molto?) tempo prima, e quando da Eolo si reca Giunone per prendere accordi, si suppone che essi siano soli. Né ciascuna loro azione è compiuta in risposta all’altra: anzi, reagiscono in tal modo alle circostanze in cui si trovano.

Non c’è affatto uno scontro. Nemmeno Enea oppone resistenza a Giunone, sebbene sia una delle vittime designate della strategia della dea. Quando infuria la tempesta, e il cielo s’oscura improvvisamente e completamente (eripiunt subito nubes caelumque diemque Teucrorum ex oculis, vv. 88-89), Enea leva le mani al cielo ed esprime il rimpianto di non essere già morto, vorrebbe esser morto a Troia: O… Tydide! Mene Iliacis occumbere campis non potuisse tuaque animam hanc effundere dextra… (vv. 96-98). In questo momento, nel pieno della tempesta, egli desidera proprio ciò che desidera Giunone. Inoltre, poiché la tempesta ha scagliato le navi in ogni direzione (contro gli scogli, vv. 108-109; sulla rena, vv. 109-110), e persone e cose rovinano in mare, pare che la narrazione si debba interrompere prima ancora di cominciare: Apparent rari nantes in gurgite vasto, arma virum tabulaeque et Troia gaza per undas (vv. 118-19). Armi, uomini, tesori, tutto in mare.

A questo punto, non possiamo non meravigliarci della grandezza di questa scena. Non solo la tempesta è immane, ma anche il golfo sotto il potere degli dèi (vi superum v. 4) è vastissimo; meravigliosa e spaventevole è altresí la contrapposizione fra il potere degli dèi, che impongono un carceriere ai venti o blandiscono quello stesso carceriere affinché li sprigioni, e l’impotenza di un piccolo uomo disperato (virum cano v. 1).

PER APPROFONDIRE

Nella scena della tempesta succedono molte cose tutte in una volta. Philip Hardie in Cosmos and imperium (pp. 90-97) mostra come la tempesta sia un’allegoria della gigantomachia, la guerra che i Titani muovono agli dèi. Egli mostra altresí come la tempesta sia influenzata dalla descrizione meteorologica scientifica di Lucrezio (pp. 180-183 e 237-240). Lucrezio si profonde in questa spiegazione nel De rerum natura, nella speranza di fugare paure e superstizioni sugli dèi, ma qui, come dimostra Hardie, Virgilio rimitizza la tempesta adoperando gli stessi termini scientifici di Lucrezio. In piú, a Giunone si attribuisce l’elemento naturale dell’«aria» in un’etimologia ricostruita partendo dal nome Era, come si vede, in parte, nella risposta lusinghiera che le indirizza Eolo. Di questo e d’altro ancora discutono Oliver Phillips e altri.

Anderson, W.S. 2005. The Art of the Aeneid 2nd ed., 24–6. Wauconda, IL: Bolchazy-Carducci.

Hardie, P.R. 1986. Virgil’sAeneid: Cosmos and Imperium90–97. Oxford: Oxford University Press.

Levitan, W. 1993. “Give up the beginning? Juno’s mindful wrath (Aeneid 1.37).” Liverpool Classical Monthly. 18: 14.

McKay, A.G. 1989. “Vergil’s Aeolus episode.” In Daidalion: Studies in Memory of Raymond Schroder, edited by R.F. Sutton, 249–56. Wauconda, IL: Bolchazy-Carducci.

Phillips, O. 1980 “Aeole, namque tibi.” Vergilius. 26: 18–26.

Smith, R.A. 2005. The Primacy of Vision in theAeneid, 12–20.Austin: University of Texas Press

Williams, R. D. 1965–6. “The opening scenes of the Aeneid.” Proceedings of the Virgil Society. 5: 14–23.

Virgilio, Eneide I 1-33, Saggio

Di Meghan Reedy (Dickinson College)

Come salta immediatamente all’occhio, l’Eneide non è un racconto che lascia col fiato sospeso. Anzi, nei primi sette versi del poema si rivelano tutt‘i contorni della trama e il suo significato. Sappiamo infatti fin dal principio che è una storia di guerra, arma, e che ha un solo personaggio principale, virumque; sappiamo che l’autore avrà un suo spazio, poiché dice cano, «io canto»; sappiamo che l’uomo, il vir, lasciò i lidi di Troia, Troiaeab oris, e che approderà in Italia, Italiam… venit; sappiamo subito che è costretto dal destino a compiere il suo viaggio, fato profugus; soffre molti affanni, per terra e per mare, prima di arrivare alla sua destinazione, multum ille et terris iactatus et alto; che combatterà una guerra, multa quoque et bello passus; ma sappiamo altresí che riuscirà nella sua impresa, dum conderet urbem, e che dalla sua città avrà cominciamento Roma, alta moenia Romae. Sappiamo infine che lo spostamento da Troia a Roma sarà difficile (pel viaggio e per la guerra) a cagione dell’opera di forze divine avverse, di Giunone in particolare, vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram.

Se proseguiamo nella lettura non è dunque perché vogliamo scoprire come andrà a finire. Poiché il principio e la fine della storia sono già stati rivelati con dovizia di nomi (l’inizio è posto a Troia, Troiae… oris; la fine trova collocazione in luoghi variamente nominati, Italia, Lavinia litora, Latium, gentem Latinum, Albani patres, Roma), siamo invece invitati a chiederci quali avvenimenti verranno narrati nel mezzo: le traversie di quest’uomo tormentato dall’ira di Giunone e costretto a far guerra.

Ci potremmo anche chiedere perché quest’uomo sia sbattuto a destra e a manca, che cosa avrà mai potuto attirargli tanto odio da parte di una dea. Virgilio quindi chiede alla Musa di rammentargli o dirgli la risposta a questa domanda: perché quest’uomo è tanto tormentato da questa dea? Che cos’ha provocato la memor ira della saeva Iuno? Nell‘Odissea di Omero la risposta alla domanda sul motivo per cui Posidone tormenta Ulisse e gl’impedisce di tornare a casa è una storiella divertente: egli e i suoi uomini visitarono il figlio monocolo di Posidone, il ciclope gigante Polifemo, il quale divorò alcuni dei visitatori, e riuscirono a fuggire accecandolo. Posidone diede cosí l’assillo a Ulisse perché questi gli aveva accecato il figlio. Ci si potrebbe dunque aspettare che la risposta alla domanda «Perché Giunone dà l’assillo a Enea?» sia anch’essa una storia, forse anche piú lunga.

Ma il modo stesso in cui Virgilio formula la domanda frustra quest’aspettativa: mihi causas memora, dice, quo numine laeso quidve dolens regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores impulerit. La domanda ci dice che l’origine della rabbia di Giunone è il dolore, una certa ferita (laeso), o un continuo rammarico, una continua sofferenza (dolens); tuttavia, le nostre aspettative vengono ancora sconvolte quando ci viene detto che la sua rabbia alimentata dal dolore la porta a perseguitare un uomo innocente, il cui comportamento è esemplare, insignem pietate virum.

L’ira di Giunone non deriva neanche da un’interazione passata fra lei e il vir (come accade nell’Odissea). Allo stesso modo, è implicito che la risposta alla domanda «Perché Giunone è adirata?» non darà vita a una storia che sarà parte della narrazione principale. La domanda di Virgilio alla musa ai versi 8-11 è formulata in modo tale da escludere la possibilità che la ragione dell’ira di Giunone sia parte della narrazione. Ciò nonostante, l’incredulità e l’urgenza della domanda culminante al verso 11, Tantaene animis caelestibus irae?, suggerisce che le ragioni di Giunone sono un antefatto indispensabile. Se non sappiamo che cosa l’ha fatta montare in ira a tal punto da affliggere tanto crudelmente un uomo tanto pio, la narrazione rischierebbe di essere rovinata dall’incredulità.

Molti commenti sul proemio dell’Eneide si concludono qui, al verso 11. Le domande ai versi 8-11 sono state considerate a ragione come l’espressione di un tema che riecheggia attraverso l’epica, un tema che si concreta in domande aperte, perfino prive di risposta. Se però ci fermassimo qui, rischieremmo che le risposte fornite ai versi 12-33 siano o estranee alla delineazione dei versi 1-11, oppure parte della «storia propriamente detta», qualcosa di ovvio, di poco importante o interessante. Ma non è cosí.

Giunone è adirata, ci viene detto, per diverse ragioni, nessuna delle quali ha che fare con qualcosa che Enea stesso ha commesso. La cosa piú significativa, importante, pertinente è esposta nel dettaglio in oltre dieci versi (12-22). L’amore che Giunone porta a Cartagine è sottolineato con forza (15-18), cosí come la collocazione della città, nello spazio e nella storia, di contro all’Italia (contra, v. 13). La dea conserva lí, in quella città, le sue armi e il suo carro (hic illius arma, hic currus fuit, vv. 15-16), e l’ha già a cuore (iam tum tenditque fovetque, v. 18). Ella però ha sentito dire che dalla progenie di Troia sarebbe sorto un popolo, e che questo popolo avrebbe portato distruzione alle città tirie in Libia (19-22); ha sentito dire anche che questo è il volere del Fato. E Giunone teme questo futuro decretato dal Fato, id metuens (23); e il suo timore del futuro si abbina alla sua memoria del passato: ella ha combattuto pei suoi cari Greci a Troia, e l’ira verso Troia non è ancora svanita, necdum etiam causae irarum saevique dolores exciderante animo; il giudizio di Paride, che scelse Venere e non lei, è ancora ben vivido nella sua mente, manet alta mente repostum; Giove nominò il giovinetto troiano Ganimede suo coppiere, preferendolo pubblicamente a Giunone. Ciò che la fa adirare è dunque l’insieme della sua paura di ciò che accadrà e la sua incapacità di dimenticare quello che è appena accaduto. Accesa da tutto ciò, his accensa, ella dà per anni la caccia a ciò che resta dei Troiani.

La fine della risposta sunteggia il tutto cosí: Tantae molis erat Romanam condere gentem (v. 33)

Un momento. E qual è il sunto di tutto? Tanta era la fatica di fondare il popolo romano. E qual era questa fatica? E di chi si parla? Dei nostri due protagonisti, immensi e ineguagliati, Giunone ed Enea, colti quasi per coincidenza allo stesso momento, spinti e circondati dallo stesso destino, la futura Roma: Giunone si scaglia contro il fato, Enea prova a fissarvi lo sguardo. Costoro formano un’unione inestricabile nello svolgersi della narrazione.

PER APPROFONDIRE

Anderson, W.S. 2005. The Art of the Aeneid 2nd ed., 1–23. Wauconda, IL: Bolchazi-Carducci.

Braund, S. 2004. “Making Virgil Strange.” Proceedings of the Virgil Society 25: 135–46.

deGrummond, W.W. 1981. “Saevus Dolor: The Opening and Closing of the Aeneid.” Vergilius 27: 48–52.

Feeney, D. 1991. The Gods in Epic: Poets and Critics of the Classical Tradition, 120–137. Oxford: Oxford University Press.

Fredricksmeyer, E. A. 1984. “On the opening scenes of the Aeneid.” Vergilius 30: 1–19.

Harrison, E.L. 1992. “Aeneas at Carthage: The Opening Scenes of the Aeneid.” In The Two World of the Poet: New Perspectives on Vergil, edited by R. Wilhelm et al., 109–28. Detroit: Wayne State University Press.

Horsfall, N. 1973–4. “Dido in the Light of History.” Proceedings of the Virgil Society 13: 1–13. Reprinted in Oxford Readings in Virgil’s Aeneid, ed. S.J. Harrison (Oxford, 1990), pp. 127–44.

James, S. 1995. “Establishing Rome with the Sword: Condere in the Aeneid.” American Journal of Philology 116: 623–37.

Williams, R. D. 1965–6. “The Opening Scenes of the Aeneid.” Proceedings of the Virgil Society 5: 14–23.

FONTE