«Il prima possibile» è corretto? Forse. Ma è cattivo italiano.

di Giampaolo Donini

Una scheda dell’Accademia della Crusca del 22 febbraio 2012 esamina la locuzione avverbiale il prima possibile. Riguardo alla sua accettabilità, l’autrice, Raffaella Setti, scrive: «non abbiamo nessun dubbio a giudicarla del tutto corretta».

La Setti giunge a questa conclusione dopo aver esplicitato i passaggi che hanno portato dall’ineccepibile il piú presto possibile all’innovazione il prima possibile, che non ha attestazioni nella nostra storia letteraria.

[I]l percorso che va da il più presto possibile a il prima possibile prevede almeno due passaggi: il primo è senza dubbio l’applicazione della regola di formazione del grado superlativo relativo degli aggettivi (e avverbi, soprattutto di tempo e di luogo, ma non solo) con la presenza dell’articolo dove è altrettanto corretto, e semanticamente analogo, il costrutto più presto possibile […]; il secondo passaggio è la sostituzione di più presto con prima. E qui sembrano sorgere i maggiori dubbi, probabilmente a causa dell’apparente sostantivazione dell’avverbio prima dovuta alla presenza, in questo caso ingannevole, dell’articolo[.]

La ricostruzione della formazione, per analogia, del nostro costrutto, è corretta — anche se «l’apparente sostantivazione dell’avverbio» non c’entra nulla —, ma non vale a fondarne l’accettabilità. Né può essere una valida giustificazione il desiderio dei parlanti di «[e]sprimere urgenza e applicare il criterio della velocità che, nella lingua, si traduce nel risparmio di elementi e quindi in riduzioni e semplificazioni», giacché una locuzione semanticamente equivalente, come quanto prima, consentirebbe un ulteriore «risparmio di elementi».

La questione è un’altra. L’articolo che si adopra per formare il superlativo relativo può essere premesso solo alle forme comparative analitiche (piú seguito da un aggettivo o un avverbio) o alle poche forme di comparativo organico come migliore, peggiore, minore, maggiore.

Prima, benché, nella sua accezione comparativa, sia semanticamente equivalente a piú presto, non è un avverbio di grado comparativo. E a nulla giova ricordarne l’etimologia (in latino, originariamente, era il superlativo dell’avverbio arcaico pri, «davanti»), ché la nostra è un’analisi sincronica, non diacronica.

La diffusione di questo costrutto ci porta per lo meno a prenderlo in considerazione e a dare una spiegazione della sua nascita. Tuttavia, dacché si fonda su di un’errata analogia tra comparativi propriamente detti e un avverbio che solo semanticamente è equiparabile a essi, e dacché non ve n’ha traccia nella nostra letteratura, si può a buon diritto concludere che si tratta di un esempio di cattivo italiano; del tutto inutile, peraltro, data l’abbondanza di alternative.