Collettanea

Appunti in ordine sparso

L’eremita, il suo gatto e San Gregorio

Quidam Eremitarum, vir magnae virtutis, qui nihil in mundo possidebat praeter unam cattam, quam blandiens crebro quasi cohabitatricem in suis gremiis refovebat, orasse fertur ad Dominum, ut sibi ostendere dignaretur, quam futurae remunerationis mansionem sperare debuisset, qui pro illius amore saeculum deferens, nil ex eius divitiis possideret. Cumque nocte quadam dormiret, cognoscit sibi revelatum fuisse, ut cum Gregorio Romano Pontifice mansionem sibi praeparandam sperare debuisset. At ille fortiter ingemiscens, parum sibi profuisse voluntariam rerum inopiam, tantaque suae remotionis ieiunia putabat, si cum eo mansionem reciperet, qui tantis mundialibus divitiis redundaret. Cum vero Gregorianas divitias suae paupertati die noctuque suspirando conferret, alia nocte quiescens, audivit sibi Dominum in somniis dicentem: Quando divitem non possessio divitiarum faciat, sed cupido; cur audes paupertatem tuam Gregorii divitiis comparare, qui magis illam cattam quam habes, quotidie palpando, nullique conferendo, diligere comprobaris, quam ille, qui tantas divitias non amando, sed contemnendo, cunctique liberaliter largiendo, dispersit? Ita solitarius increpatus Deo gratias retulit: et qui meritum suum decrevisse putaverat, si Gregorio conferretur; orare vehementius coepit, ut cum eo mansionem quandoque percipere mereretur.

Giovanni Diacono, Vita di San Gregorio Magno, IX sec.

Trad.: «Un eremita, uomo di grande virtú, che nulla possedeva al mondo se non un gatto che carezzava di continuo e faceva viver seco tenendolo in grembo, pregò il Signore affinché si degnasse di mostrargli quale posto avrebbe dovuto sperare come ricompensa futura, poiché egli non possedeva nessuna ricchezza del mondo e anzi se ne allontanava per amor di Lui. Una notte, mentre dormiva, gli fu rivelato che avrebbe dovuto sperare di ricevere un posto che gli si andava preparando accanto al pontefice romano Gregorio. Egli allora prese a lamentarsi grandemente e riteneva che a nulla gli avessero giovato l’indigenza volontaria e i tanti digiuni fatti nel suo ritiro, se gli si destinava un posto accanto a lui, che abbondava di tante ricchezze mondane. Cosí egli seguitava notte e dí a paragonare la sua povertà alla dovizia di Gregorio, finché, un’altra notte, mentre riposava, udí in sogno il Signore che gli disse: ‹Poiché non il possesso di ricchezze rende ricchi, bensí la brama di quelle, perché ardisci paragonare la tua povertà alla dovizia di Gregorio, dacché tu chiaramente ami il gatto che tieni con te, che accarezzi tutt’i giorni, e che non cedi a nessuno piú di quanto non faccia egli colle sue ricchezze, che non ama, anzi disprezza, distribuisce, elargisce a tutti con generosità?›. Rampognato in tal guisa, l’eremita rese grazie a Dio: e come colui che aveva ritenuto che il merito suo scemasse a riscontro di Gregorio, cominciò a pregare con maggior vigore per meritare, a suo tempo, di ricevere il suo posto accanto a colui».


CATTA, s.f., «gatto». È difficile capire se sia da considerare un femminile epiceno (come il greco moderno γάτα o il tedesco Katze) o se il genere femminile rispecchi il sesso. Dal contesto del brano non ricaviamo sufficienti indizi per stabilire che quel gatto fosse una femmina; anzi, probabilmente con catta si vuol semplicemente dire gatto, senza riguardo al sesso. La parola cattus o catta, passata poi in tutte le lingue moderne d’Europa, in latino era rara, e si presentava come forestierismo, forse un semitismo: un fatto che riflette la storia stessa dell’animale nel mondo classico (si veda Francis D. Lazenby, Greek and Roman Household Pets, The Classical Journal, Vol. 44, No. 5 (Feb., 1949), pp. 299-307).


Virgilio, Eneide, I 34-123, Saggio

Di Meghan Reedy (Dickinson College)

Ai profughi troiani possiamo dare soltanto una fugace occhiata ai versi 34-35. Stanno veleggiando allegramente al largo della costa siciliana: Vix e conspectu Siculae telluris in altum vela dabant laeti et spumas salis aere ruebant. Ma poi la riflessione di Giunone e le sue conseguenze si prendono la scena.

Nel suo monologo, Iuno … haec secum (vv. 36-7), Giunone attribuisce la sua frustrazione di non riuscire, al momento, a impedire ai Troiani d’insediarsi in Italia (Mene incepto desistere victam nec posse Italia Teucrorum avertere regem? v. 38) alla sua gelosia verso un’altra dea, Minerva (Pallasne …, vv. 39-49). Ella ricorda come Minerva dette alle fiamme la flotta argiva (e gli argivi sono cari a Giunone, caris … Argis, I v. 24) e ne fece annegare i marinai, per colpa d’Aiace d’Oileo, che stuprò Cassandra (Pallasne urere classem Argivum atque ipsos potuit summergere ponto unius ob noxam et furias Aiacis Oilei? vv. 39-41). Anche il modo in cui lo fece offende Giunone: Minerva scagliò ella stessa la saetta di Giove e fiaccò le navi suscitando una tempesta (ipsa, Iovis rapidum iaculata e nubibus ignem, disiecitque rates evertitque aequora ventis, vv. 42-3). Colpí lo stesso Aiace con un fulmine, lo fece inghiottire da un vortice d’aria e lo schiacciò contro uno scoglio aguzzo, illum exspirantem transfixo pectore flammas turbine corripuit scopuloque infixit acuto (vv. 44-5). Giunone si lamenta perché ella, sorella e moglie di Giove, ne scapita in reputazione non essendo capace di fare altrettanto (vv. 46-9).

Ciò che seguirà pare essere un tentativo di porre rimedio a entrambe le cose in un sol colpo: Giunone userà i suoi metodi per suscitare una violenta tempesta, imitando cosí la vendetta di Minerva su Aiace e arrestando l’avanzata dei Troiani. Ma ci sono differenze evidenti.

Se Minerva aveva abusato dell’emblema del potere, dell’arma caratteristica di Giove, la saetta (rapidum… ignem v. 42), Giunone abusa del di lui potere «burocratico». Ci viene raccontato, ai versi 58 e 59, che i venti, lasciati infuriare liberamente, distruggerebbero tutto ciò che trovano. Per tema di ciò, Giove li fece imprigionare sotto un monte, e fece vigilare su di loro un re suo vassallo, Eolo, che li sprigiona di volta in volta secondo il volere di colui (vv. 61-63). E proprio questo re, Eolo, sarà corrotto da Giunone (vv. 65-75) affinché li liberi tutt’insieme.

Vorrei ora concentrare l’attenzione su due aspetti apparentemente minori, ma utili a orientarci non soltanto in questa scena, bensí anche nel quadro piú ampio della narrazione.

Il primo è il modo in cui Giunone e Giove sono rappresentati in contrasto fra loro. Al verso 23, quando Virgilio elenca le ragioni per cui Giunone è tanto adirata, riassume nel concetto di paura la sua reazione alla notizia secondo cui la progenie dei Troiani era destinata dal Fato a distruggere Cartagine: id metuens… E al verso 3 e poi ancora ai versi 29-32 apprendiamo come, a cagione della sua ira, provocata (in parte) da tale paura, ella scaraventi i Troiani in mezzo ai marosi ogni volta che può (multum ille… iactatus et alto v. 3; iactatos aequore… errabant… maria omnia circum vv. 29-32). Ma anche Giove prova timore, come si dice esplicitamente al verso 61: hoc metuens. La sua, tuttavia, è la paura d’involontarie tempeste (vv. 58-59). E vi reagisce con un freno sia fisico (imprigiona i venti in una montagna, v. 61) sia legale (stringe un patto con un re, attraverso un foedere certo, v. 62). Egli esercita dunque ciò che potremmo chiamare restrizione preventiva, mentre Giunone si sente spinta a provocare un disastro preventivo. Entrambi agiscono per paura.

In secondo luogo, questo contrasto fra Giunone e Giove non è uno scontro tra loro. Essi non agiscono in un medesimo tempo: Giove si è accordato con Eolo (molto?) tempo prima, e quando da Eolo si reca Giunone per prendere accordi, si suppone che essi siano soli. Né ciascuna loro azione è compiuta in risposta all’altra: anzi, reagiscono in tal modo alle circostanze in cui si trovano.

Non c’è affatto uno scontro. Nemmeno Enea oppone resistenza a Giunone, sebbene sia una delle vittime designate della strategia della dea. Quando infuria la tempesta, e il cielo s’oscura improvvisamente e completamente (eripiunt subito nubes caelumque diemque Teucrorum ex oculis, vv. 88-89), Enea leva le mani al cielo ed esprime il rimpianto di non essere già morto, vorrebbe esser morto a Troia: O… Tydide! Mene Iliacis occumbere campis non potuisse tuaque animam hanc effundere dextra… (vv. 96-98). In questo momento, nel pieno della tempesta, egli desidera proprio ciò che desidera Giunone. Inoltre, poiché la tempesta ha scagliato le navi in ogni direzione (contro gli scogli, vv. 108-109; sulla rena, vv. 109-110), e persone e cose rovinano in mare, pare che la narrazione si debba interrompere prima ancora di cominciare: Apparent rari nantes in gurgite vasto, arma virum tabulaeque et Troia gaza per undas (vv. 118-19). Armi, uomini, tesori, tutto in mare.

A questo punto, non possiamo non meravigliarci della grandezza di questa scena. Non solo la tempesta è immane, ma anche il golfo sotto il potere degli dèi (vi superum v. 4) è vastissimo; meravigliosa e spaventevole è altresí la contrapposizione fra il potere degli dèi, che impongono un carceriere ai venti o blandiscono quello stesso carceriere affinché li sprigioni, e l’impotenza di un piccolo uomo disperato (virum cano v. 1).

PER APPROFONDIRE

Nella scena della tempesta succedono molte cose tutte in una volta. Philip Hardie in Cosmos and imperium (pp. 90-97) mostra come la tempesta sia un’allegoria della gigantomachia, la guerra che i Titani muovono agli dèi. Egli mostra altresí come la tempesta sia influenzata dalla descrizione meteorologica scientifica di Lucrezio (pp. 180-183 e 237-240). Lucrezio si profonde in questa spiegazione nel De rerum natura, nella speranza di fugare paure e superstizioni sugli dèi, ma qui, come dimostra Hardie, Virgilio rimitizza la tempesta adoperando gli stessi termini scientifici di Lucrezio. In piú, a Giunone si attribuisce l’elemento naturale dell’«aria» in un’etimologia ricostruita partendo dal nome Era, come si vede, in parte, nella risposta lusinghiera che le indirizza Eolo. Di questo e d’altro ancora discutono Oliver Phillips e altri.

Anderson, W.S. 2005. The Art of the Aeneid 2nd ed., 24–6. Wauconda, IL: Bolchazy-Carducci.

Hardie, P.R. 1986. Virgil’sAeneid: Cosmos and Imperium90–97. Oxford: Oxford University Press.

Levitan, W. 1993. “Give up the beginning? Juno’s mindful wrath (Aeneid 1.37).” Liverpool Classical Monthly. 18: 14.

McKay, A.G. 1989. “Vergil’s Aeolus episode.” In Daidalion: Studies in Memory of Raymond Schroder, edited by R.F. Sutton, 249–56. Wauconda, IL: Bolchazy-Carducci.

Phillips, O. 1980 “Aeole, namque tibi.” Vergilius. 26: 18–26.

Smith, R.A. 2005. The Primacy of Vision in theAeneid, 12–20.Austin: University of Texas Press

Williams, R. D. 1965–6. “The opening scenes of the Aeneid.” Proceedings of the Virgil Society. 5: 14–23.

Virgilio, Eneide I 1-33, Saggio

Di Meghan Reedy (Dickinson College)

Come salta immediatamente all’occhio, l’Eneide non è un racconto che lascia col fiato sospeso. Anzi, nei primi sette versi del poema si rivelano tutt‘i contorni della trama e il suo significato. Sappiamo infatti fin dal principio che è una storia di guerra, arma, e che ha un solo personaggio principale, virumque; sappiamo che l’autore avrà un suo spazio, poiché dice cano, «io canto»; sappiamo che l’uomo, il vir, lasciò i lidi di Troia, Troiaeab oris, e che approderà in Italia, Italiam… venit; sappiamo subito che è costretto dal destino a compiere il suo viaggio, fato profugus; soffre molti affanni, per terra e per mare, prima di arrivare alla sua destinazione, multum ille et terris iactatus et alto; che combatterà una guerra, multa quoque et bello passus; ma sappiamo altresí che riuscirà nella sua impresa, dum conderet urbem, e che dalla sua città avrà cominciamento Roma, alta moenia Romae. Sappiamo infine che lo spostamento da Troia a Roma sarà difficile (pel viaggio e per la guerra) a cagione dell’opera di forze divine avverse, di Giunone in particolare, vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram.

Se proseguiamo nella lettura non è dunque perché vogliamo scoprire come andrà a finire. Poiché il principio e la fine della storia sono già stati rivelati con dovizia di nomi (l’inizio è posto a Troia, Troiae… oris; la fine trova collocazione in luoghi variamente nominati, Italia, Lavinia litora, Latium, gentem Latinum, Albani patres, Roma), siamo invece invitati a chiederci quali avvenimenti verranno narrati nel mezzo: le traversie di quest’uomo tormentato dall’ira di Giunone e costretto a far guerra.

Ci potremmo anche chiedere perché quest’uomo sia sbattuto a destra e a manca, che cosa avrà mai potuto attirargli tanto odio da parte di una dea. Virgilio quindi chiede alla Musa di rammentargli o dirgli la risposta a questa domanda: perché quest’uomo è tanto tormentato da questa dea? Che cos’ha provocato la memor ira della saeva Iuno? Nell‘Odissea di Omero la risposta alla domanda sul motivo per cui Posidone tormenta Ulisse e gl’impedisce di tornare a casa è una storiella divertente: egli e i suoi uomini visitarono il figlio monocolo di Posidone, il ciclope gigante Polifemo, il quale divorò alcuni dei visitatori, e riuscirono a fuggire accecandolo. Posidone diede cosí l’assillo a Ulisse perché questi gli aveva accecato il figlio. Ci si potrebbe dunque aspettare che la risposta alla domanda «Perché Giunone dà l’assillo a Enea?» sia anch’essa una storia, forse anche piú lunga.

Ma il modo stesso in cui Virgilio formula la domanda frustra quest’aspettativa: mihi causas memora, dice, quo numine laeso quidve dolens regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores impulerit. La domanda ci dice che l’origine della rabbia di Giunone è il dolore, una certa ferita (laeso), o un continuo rammarico, una continua sofferenza (dolens); tuttavia, le nostre aspettative vengono ancora sconvolte quando ci viene detto che la sua rabbia alimentata dal dolore la porta a perseguitare un uomo innocente, il cui comportamento è esemplare, insignem pietate virum.

L’ira di Giunone non deriva neanche da un’interazione passata fra lei e il vir (come accade nell’Odissea). Allo stesso modo, è implicito che la risposta alla domanda «Perché Giunone è adirata?» non darà vita a una storia che sarà parte della narrazione principale. La domanda di Virgilio alla musa ai versi 8-11 è formulata in modo tale da escludere la possibilità che la ragione dell’ira di Giunone sia parte della narrazione. Ciò nonostante, l’incredulità e l’urgenza della domanda culminante al verso 11, Tantaene animis caelestibus irae?, suggerisce che le ragioni di Giunone sono un antefatto indispensabile. Se non sappiamo che cosa l’ha fatta montare in ira a tal punto da affliggere tanto crudelmente un uomo tanto pio, la narrazione rischierebbe di essere rovinata dall’incredulità.

Molti commenti sul proemio dell’Eneide si concludono qui, al verso 11. Le domande ai versi 8-11 sono state considerate a ragione come l’espressione di un tema che riecheggia attraverso l’epica, un tema che si concreta in domande aperte, perfino prive di risposta. Se però ci fermassimo qui, rischieremmo che le risposte fornite ai versi 12-33 siano o estranee alla delineazione dei versi 1-11, oppure parte della «storia propriamente detta», qualcosa di ovvio, di poco importante o interessante. Ma non è cosí.

Giunone è adirata, ci viene detto, per diverse ragioni, nessuna delle quali ha che fare con qualcosa che Enea stesso ha commesso. La cosa piú significativa, importante, pertinente è esposta nel dettaglio in oltre dieci versi (12-22). L’amore che Giunone porta a Cartagine è sottolineato con forza (15-18), cosí come la collocazione della città, nello spazio e nella storia, di contro all’Italia (contra, v. 13). La dea conserva lí, in quella città, le sue armi e il suo carro (hic illius arma, hic currus fuit, vv. 15-16), e l’ha già a cuore (iam tum tenditque fovetque, v. 18). Ella però ha sentito dire che dalla progenie di Troia sarebbe sorto un popolo, e che questo popolo avrebbe portato distruzione alle città tirie in Libia (19-22); ha sentito dire anche che questo è il volere del Fato. E Giunone teme questo futuro decretato dal Fato, id metuens (23); e il suo timore del futuro si abbina alla sua memoria del passato: ella ha combattuto pei suoi cari Greci a Troia, e l’ira verso Troia non è ancora svanita, necdum etiam causae irarum saevique dolores exciderante animo; il giudizio di Paride, che scelse Venere e non lei, è ancora ben vivido nella sua mente, manet alta mente repostum; Giove nominò il giovinetto troiano Ganimede suo coppiere, preferendolo pubblicamente a Giunone. Ciò che la fa adirare è dunque l’insieme della sua paura di ciò che accadrà e la sua incapacità di dimenticare quello che è appena accaduto. Accesa da tutto ciò, his accensa, ella dà per anni la caccia a ciò che resta dei Troiani.

La fine della risposta sunteggia il tutto cosí: Tantae molis erat Romanam condere gentem (v. 33)

Un momento. E qual è il sunto di tutto? Tanta era la fatica di fondare il popolo romano. E qual era questa fatica? E di chi si parla? Dei nostri due protagonisti, immensi e ineguagliati, Giunone ed Enea, colti quasi per coincidenza allo stesso momento, spinti e circondati dallo stesso destino, la futura Roma: Giunone si scaglia contro il fato, Enea prova a fissarvi lo sguardo. Costoro formano un’unione inestricabile nello svolgersi della narrazione.

PER APPROFONDIRE

Anderson, W.S. 2005. The Art of the Aeneid 2nd ed., 1–23. Wauconda, IL: Bolchazi-Carducci.

Braund, S. 2004. “Making Virgil Strange.” Proceedings of the Virgil Society 25: 135–46.

deGrummond, W.W. 1981. “Saevus Dolor: The Opening and Closing of the Aeneid.” Vergilius 27: 48–52.

Feeney, D. 1991. The Gods in Epic: Poets and Critics of the Classical Tradition, 120–137. Oxford: Oxford University Press.

Fredricksmeyer, E. A. 1984. “On the opening scenes of the Aeneid.” Vergilius 30: 1–19.

Harrison, E.L. 1992. “Aeneas at Carthage: The Opening Scenes of the Aeneid.” In The Two World of the Poet: New Perspectives on Vergil, edited by R. Wilhelm et al., 109–28. Detroit: Wayne State University Press.

Horsfall, N. 1973–4. “Dido in the Light of History.” Proceedings of the Virgil Society 13: 1–13. Reprinted in Oxford Readings in Virgil’s Aeneid, ed. S.J. Harrison (Oxford, 1990), pp. 127–44.

James, S. 1995. “Establishing Rome with the Sword: Condere in the Aeneid.” American Journal of Philology 116: 623–37.

Williams, R. D. 1965–6. “The Opening Scenes of the Aeneid.” Proceedings of the Virgil Society 5: 14–23.

FONTE

LA BASSA DI IERI · «Sugar paludi» per far risaie

Moltissime opere di bonifica sono legate ai nomi di nobili veronesi, padovani e veneziani che dal Quattrocento in poi trasformarono il territorio – Un paesaggio geometrico e produttivo

Un tipico paesaggio della «bassa» verso le valli. Fossato, pioppi e salici costituiscono elementi della campagna veneta di terraferma: delimitavano i «quarti» e sostenevano le rive dei canali

Numerose erano le famiglie patrizie che avevano beni nella nostra bassa: alcune veronesi, altre veneziane e padovane. Diversi banchi logori della chiesa di Angiari, Cerea, Sustinenza, Boschi S. Anna, Casaleone portano ancora impressi i segni della nobiltà. E con i loro nomi rivive il ricordo di storie e imprese che hanno esteso canali di bonifica, sostegni fluviali, scoli, seriole, e dugali per le colture del riso, del tabacco e del frumento, e corti rurali che testimoniano un mondo agricolo utile e fecondo.

Dall’Adige al Tartaro il territorio è sempre stato da sanare con un lavoro arduo e faticoso da parte dell’uomo. Il Tartaro, il Tregnone, il Menago costituirono appunto alcuni bacini meglio sfruttati. Nelle valli del Tartaro troviamo antichissime «corti» di Benassuto e Leonardo Montanari a Pradelle, di Romanin Jacur a Maccacari, del Michiel alla Borghesana, di Antonio Cavalli a Campalano con il loro nucleo padronale; del Basadonna con sostegni fluviali sul Tartaro per l’irrigazione dei loro poderi.

Nel Quattrocento la Bassa era il territorio, assieme al Polesano, maggiormente attanagliato dalle paludi. Lungo il corso del Tione e del Tartaro, fino a Ponte Molino, predominavano vaste plaghe di acquitrini, quidi la grande estensione delle valli. Da Pradelle a Roncanova i Giusti, gli Olivetani di S. Maria in Organo, i Bevilacqua, i Serego furono impegnati in varie opere (vol. B. Pop.) “de arzeri e fossi facti verso il bastion de le Zinzale per sugar palude e far boni pradi». Dettero un duro colpo all’incolto boschivo e paludivo, ancora tanto diffuso, le famiglie Lando e Levà di Sopra, i Campagna a Barabò di Nogara, i Dal Borgo a Borghesana, i Rossi di S. Secondo e i Belgioioso nelle valli di Castagnaro; i Sambonifcaio, Lazise, Buri, Moscardo in quelle di Villa Bartolomea. Nel feudo di Gazzo i Giusti avevano provveduto a scoli e arginature dal 1494.

Gli ottantenni (salariati in pensione) alle dipendenze dei Treves alla «Bragadina» in una foto del ’41 durante l’ultima galdega dei risari sull’aia della «Rosta». Erano granaristi, risai, ortolani, bovai, cavallari, guardiani, falegnami, ferrari, motoristi. Tra loro Luigi Mutti, Angelo Rossini, Vittorio Borin, Pietro Cavallaro, Giuseppe Marchiotto, Emilio Borasca, Antonio Cappello, Albino Marangoni, Giovanni Berro, Emilio Frangini, Augusto Lonardi, Augusto Pallotto, Angelo Bertazza, Francesco Ramazzotto, G. Righetti, Girolamo Filippi

La coltura risicola comportava un dispiegamento di mezzi – seriole, pile, sostegni, ponti – che taluni chiamarono «avanzante capitalismo agrario». Sul confine mantovano, partendo dal Tartaro, i Rimbaldo avevano immense risaie. Ma vi erano anche i Cagalli, Priuli, Zanetto Capello. Coltivato su terreno, coperto da una spanna d’acqua, il riso apparve per la prima volta a Zevio e Palù nel 1528 per opera del marchese Teodoro Trivulzio e da allora trovò vasta estensione nella pianura, impaludata da secoli, tra il Tartaro e l’Adige. Le aree più produttive erano quelle di Zevio, Isola della Scala, San Pietro, Casaleone, Villa Bartolomea, Castagnaro ovvero tutta la zona attorno le valli veronesi. Alla metà del Cinquecento il prodotto era definitivamente affermato.

A S. Pietro di Legnago il nobile veneziano Giacomo Giustinian aveva una «possessione» di 100 campi di risaia con annessa pila per riso. La Bragadina, già della famiglia dogale del Bragadin, poi Treves, ora Centin, conserva attorno al palazzo con torre, le ampie barchesse, la cappella, l’aia vastissima delimitata dal porto fluviale interno per il trasporto del riso via acqua. Bragadin facea lavorare 198 campi per i quali dichiarava sacchi 1096 di riso grezzo; altra proprietà di campi 630 dei quali dichiarava di aver ricavato, nel 1736, minali 902 di frumento. Alla Rosta, già Bragadin, l’ancor più ampia aia e delimitata da pile e barcagni con il ponticello in cotto che richiama talune costruzioni lagunari veneziane.

A Vangadizza nella borgata Pisani, c’è ancor la Fossa omonima che serviva per il trasporto del riso coltivato nei quarti, arrivava ai depositi su barche trainate da cavalli. Nella corte Pompei-Perez-De Berti esiste altra vasta aia in cotto come pure l’antico alveo della Fossa che costeggia la cinta muraria, ove approdavano le barche colme di riso.

Un bellissimo stemma gentilizio su un ponte sul Tregnone ai Bonzanini, nei pressi della «Borghesana» di Casaleone

A Vigo lo stabile Marchesa era posseduto nel 1500 dai fratelli Bartolomeo e Piero Donà, nobili veneziani. Nel 1589 ebbero dalla repubblica di Venezia una investitura a risaia di circa 510 campi veronesi e nel 1642 un privilegio di due pile da riso; nel 1809 altra investitura a Donà-Accordi riguardante l’irrigazione di 965 campi (arch. Fioroni). Anche la Concola antico possesso della chiesa di S. Bartolomeo della Levata di Verona conserva ancora l’architettura veneta del Cinquecento quando le case avevano tutte la loro torre e si articolavano su di un solo piano con soprastante granaio.
Notevoli opere di bonifica furono effettuato in Val Verde dalla nobile famiglia Balbi di origine veneziana. La famiglia Balbi diede parecchi provveditori per il governo della fortezza di Legnago: Eustachio nel 1593, Zaccaria nel 1630-31, Paolo nel 1721, Barbarigo nel 173435-36, Antonio nel 1749, Domenico nel 1798, Angiolo Maria dal 1793 al 1798 (annotati dal Boscagin).

Nel Cinquecento i Cagalli (maestro Gaspare Cagalli nel 1532 aveva aperto una farmacia a Legnago) possedevano lungo il Tregnone quattro fabbriche murate e trasformarono 320 campi a risaia. Pure i Boldiero ampliarono gli irrigui con una seriola di duemila pertiche (su proposta ai Provveditori agli Inculti che avevano assunto tutte le concessioni). Famiglia facoltosa i Boldiero, Scipione Maffeo scrisse che Gherardo Boldiero fu medico lodatissimo, e Tommasio Bovio afferma che Gherardo meritò un decreto del Senato Veneto perché fosse chiamato Principe de’ Medici.

La località Morande, Morandine ad est di Casaleone, derivano probabilmente dai patrizi Morando. Ad est di S. Teresa in valle, verso il Tartaro, i Serego avevano terre con seriole e dugali tuttora portanti i loro nomi.

Le valli sono tuttora bagnate anche dalla Sanuda (forse trae origine dalla famiglia veneziana Sanudo) proveniente dai dintorni di Buttapietra, scende a sustenenza, sbocca nel Tregnone sotto alla Borghesana. Vi scorre anche la Fossa Canossa fatta escavare dai marchesi Canossa. Nota fu la irrigazione con la conseguente messa a risaia derivando acque dal Menago a mezzo della fossa Boldierona, e tulizzando le acque del Boldier e del Corno riuniti. L’opera si ottenne nel Settecento con la costruzione di una botte a sifone sotto il Menago in S. Zeno di Cerea, distogliendo la portata del Corno che prima si gettava nel detto fiume. E da allora il Corno – scrisse il Bresciani – cambiò nome e prese l’appellativo di Canossa.

A Cerea e a Casaleone nel 1700 erano zone di grandi proprietà terriere. Una di queste era del nobiluomo Zuanne Widmann con 1098 campi. Altra possessione era di Zuanne Loredan formata da 903 campi a Casaleone con risaie e pile. Queste famiglie (quasi tutte avevano provveditori veneti a Legnago) possedevano ampie distese fondiarie con al centro la «corte» e la sua imponenza rispondeva alla reale dimensione della fattoria, i cui sostegni, roste, pile, seriole spiegano l’enorme prevalenza per la produzione del riso. Di queste superstiti attività artigianali risultano ancora segnate sulle Carte al 25 mila: «Pila», «Piletta» alla Ravagnana di Casaleone, alla Pozza di Cerea, a Vigo, a Spinimbecco di Villa Bartolomea. La scelta della risaia creò il tipico paesaggio geometrico e piatto e non a caso le mappe cinquecentesche evidenziano l’assiepamento delle contrade nel raggio d’azione della «corte», in cui i corsi d’acqua erano determinanti.

Ernesto Berro

[Dall’Arena del 24 agosto 1984]

«Legnago è etrusca, Porto è veneta: per questo si guardano in cagnesco»

• «Sono due razze diversissime, non amalgamabili, anche perché l’Adige ha sempre impedito ogni forma di socializzazione» osserva don Boscagin • «Già don Trecca aveva cominciato a scrivere questa storia, ma si fermò al 1500» • «Sulle bozze dell’ultima dispensa scrisse, in latino: “Mi sono cadute le mani”. Io ho ripreso da lì» • «Città militare, cinta da mura, Legnago è stata per amore o per forza autosufficiente e quindi un po’ chiusa» • «E infatti i legnaghesi erano classisti e avevano il caffè degli avvocati, quello dei dottori, dei commercianti, degli operai» • «Prima di morire voglio realizzare un paio di cose» • «Ho pronto un libro sui personaggi illustri, ma non trovo lo sponsor per pubblicarlo» •

Il seme della passione per la storia («non la grande Storia — precisa — ma quella con la “s” minuscola, dei piccoli episodi, quella che riguarda più da vicino la nostra terra, che ci insegna a riconoscere le nostre origini e a percorrere il nostro cammino, passo passo nei secoli, e che ci fa amare ancora di più la nostra Bassa») don Cirillo Boscagin confessa di averla sempre avuta segretamente dentro. «Da ragazzino — dice — passavo giornate intere nell’archivio della parrocchia. Poi cominciai a scrivere qualche articolo per i giornali locali. Erano episodi di precisa collocazione storica, senza pretese».

Ma fu il compianto prof. Gino Beltramini di Verona a far sbocciare nel tranquillo cappellano dell’ospedale di Legnago la «grande» passione, quando, nel 1952, gli chiese un articolo da pubblicare nella rivista «Vita Veronese», in occasione del centenario del martirio di Frattini e Scarsellini.
«A Beltramini il pezzo piacque — ricorda don Cirillo — e mi chiese di preparare per la collana “Le guide” una breve storia di Legnago, che venne pubblicata nel 1956 e che in breve esaurì due edizioni».

La ricerca divenne ben presto, per don Cirillo, molto più di un hobby. «Il mio impegno con l’ospedale — sottolinea — mi lasciava parecchio tempo libero. Presi a frequentare la Fondazione Fioroni, gli archivi di Verona e di Venezia, numerose biblioteche, alla ricerca di notizie, documenti, scampoli della storia di Legnago. Intanto moriva don Trecca, l’eclettico, enciclopedico, caustico, “strano” sacerdote della Bassa che cento cose iniziava e non una ne portava a termine. Aveva cominciato, fra l’altro, a pubblicare a dispense, intorno al 1900, una bellissima storia di Legnago, ma si era fermato all’anno 1500 circa. Il resto del materiale, sparso, era presso la Fioroni, che mi incaricò di riordinarlo. Scoprii così che don Trecca aveva provato a terminare l’opera, ma poi si era arreso, scrivendo una frase lapidaria sulle bozze dell’ultima dispensa, mai pubblicata: “Hic cecidere manus”, cioè “mi sono cadute le mani”. Si era insomma stufato, come in tutte le sue cose. Presi il materiale, lo riordinai, aggiornandolo e completandolo ed arrivai a pubblicare, nel 1966, la prima edizione della “Storia di Legnago”, con la presentazione del legnaghese prof. Gino Barbieri, edita da Ghidini e Fiorini e con il patrocinio della Cassa di risparmio, che intervenne con un contributo di due milioni di lire a fondo perduto. La prima copia dell’opera fu presentata al ministro Gui, il cui nonno era stato per anni casellante delle Ferrovie nel Legnaghese».

In pochi anni la «Storia di Legnago» andò esaurita. Nel 1975 don Boscagin ne pubblicò la riedizione riveduta e corretta, con il titolo «Legnago nella storia», la nuova presentazione di Gino Barbieri, stampata da Girardi di Legnago, ancora con un sostanziale contributo della Cassa di risparmio. E anche il secondo libro andò a ruba. «È servito a insegnanti e studenti per le tesi di laurea — osserva don Cirillo —. Quindi si è presentata la necessità della terza rispatampa, che uscirà a giorni e che sarà aggiornate, corretta, ampliata nella parte socio-economica. La realizzazione della nuova opera, in due volumi, corredata di nuove illustrazioni, è stata resa possibile grazie all’interessamento della Pro Loco di Legnago». È bene ricordare che don Boscagin, oltre all’imponente «Storia di Legnago», che ha raccolto, fin dalla pubblicazione della prima edizione, un lusinghiero successo di pubblico e di critica, è autore di altre pregevoli opere.

Recente (1982) un libro sulla storia degli ospedali a Legnago, edito da «La Mainarda» di Cologna Veneta. Dell’80 è «Una nobiltà a servizio dei poveri: fratel Francesco dei conti Perez» («un uomo umilissimo — annota l’autore — che donò tutti i suoi beni e fece voto di povertà per stare vicino a don Calabria, nel corpo e nello spirito, e che quasi certamente sarà beatificato»).
Ha vent’anni (1964), invece, un’altra pubblicazione sulla vita di monsignor Girolamo Cardinale, che fu vescovo di Verona e che ricorre spesso nel pensiero di don Boscagin, essendo stato per sua mano ordinato sacerdote.

Don Cirillo è innamorato della «sua» Legnago, dove operò per oltre trent’anni e di cui ricorda la gente, la vita, le speranze, l’evolversi del progresso del dopoguerra. «Ma a Legnago — racconta — ero di casa fin da bambino, quando mi accompagnavano al mercato. Legnago ha un ambiente tutto particolare; si sente città e rivendica questo ruolo in virtù di ragioni storiche che la resero indipendente da Verona fin dal 1399, ad opera di Gian Galeazzo Visconti. Legnago non sente legami di dipendenza da alcun centro, anche perché fu sempre città militare, fortificata, cinta da mura e quindi per amore o per forza autosufficiente. Nel bene e nel male, l’indipendenza, le mura, l’acqua, segnarono la storia di Legnago e condizionarono la mentalità dei suoi abitanti».

Appunto, la mentalità. Don Boscagin sostiene che essendo Legnago città militare per tradizione, e quindi «chiusa» alle innovazioni, all’industria e anche ai commerci, è stata condizionata da questi fattori nel suo modo di agire e di pensare. Per lo meno fin o a un paio di decenni fa. «I legnaghesi, fino a poco tempo fa — spiega — erano quasi classisti. C’era il caffè degli avvocati, quello dei dottori, dei commercianti, degli operai. Non parliamo poi delle lotte tra Porto e Legnago, divise, prima ancora che ci fosse l’Adige, da un altro corso di fiume. Gli abitanti dei due centri non sono mai riusciti a sopportarsi a vicenda. In passato ci furono vere e proprie lotte; ora tutto questo si è ridotto magari a un simpatico campanilismo, ma fino a poco tempo fa non scherzavano. Io mi spiego questa insofferenza tra Legnago e Porto con il fatto della diversa origine dei rispettivi abitati. È provato da reperti archeologici, infatti, che Porto fu originata da una civiltà atestina, veneta, metnre Legnago ha ascendenze etrusche. Quindi due razze diversissime, non amalgamabili, anche perché l’acqua dell’Adige ha sempre impedito ogni forma di socializzazione tra le due parti. Un vecchio parroco mi diceva addirittura che si poteva notare la differenza di linguaggio, di qua e di là del fiume. D’altra parte, alcuni verbali comunali del Quattrocento o del Cinquecento, a Porto (che allora era Comune autonomo) si trovano scritti in forma dialettale, mentre a Legnago, città colta, sono scritti in perfetto latino. Vuol dire che si parlava in maniera diversa. E a ben vedere, questa diversità, in alcune espressioni, in alcuni modi di dire, si nota ancora oggi».

Ma il fatto che Legnago rimase sempre racchiusa all’interno delle sue mura, fino al 1887, quando vennero abbattute («e si compì il delitto di demolire e disperdere i resti delle due porte del Sanmicheli», geme don Cirillo), non le impedì di essere spesso una città all’avanguardia per cultura ed iniziative. «Basti pensare all’ospedale, di tradizioni antichissime — spiega l’autore della “Storia di Legnago” — o al monte di pietà. Legnago fu la prima, a quanto risulta, ad istituire una borsa di studio per due medici che andassero a Padova a studiare per poter curare le numerose malattie contagiose che vi erano a causa, soprattutto, del fosso che cingeva le mura e delle risaie che, nonostante la legge lo vietasse, arrivavano a ridosso della città».

Per don Cirillo, Legango, comunque, può andare giustamente fiera della tradizionale laboriosità e tenacia dei suoi abitanti. «Ha sempre saputo superare — dice — i momenti difficili. E ne ha avuti tanti. Dalla distruzione operata da Ezzelino da Romano, alle varie inondazioni, alle bombe dell’ultima guerra. Fino ad arrivare ai primi del Novecento quando, alle secolari tradizioni del mercato e del commercio fluviale, sfruttando la sua posizione privilegiata, al centro di importanti vie di comunicazione, in una zona che era la prima che si rendeva abitabile oltre le Grandi Valli, piano piano seppe scoprire l’industria dello zuccherificio, che fu il secondo ad essere realizzato nell’alta Italia».

A quasi ottant’anni, don Cirillo coltiva ancora l’hobby della storia, passando ore e ore nel suo studio. «Prima di morire — dice — voglio arrivare a realizzare un paio di cosette che ho in cantiere. Ho pronto un libro sui personaggi illustri di Lengago, dei quali io ho curato la biografia e Felice Nalin ha realizzato il ritratto in maniera stupenda. Ma non trovo lo sponsor… Inoltre, vorrei tanto pubblicare un calendario storico che mi è costato molto lavoro, ma che penso potrebbe interessare a molti. Ogni giorno narro un episodio di vita legnaghese di storia spicciola che ha una relazione con quella certa data». Una sorta di diario retrospettivo in cui ogni legnaghese insomma potrebbe «leggere» un pezzetto della sua storia fino al 1982. Lanciamo un’idea al nostro giornale: non si potrebbe «rubare» il manoscritto? Don Cirillo Boscagin, ne siamo certi, farebbe finta di non accorgersene.

Franco Bottacini

(L’Arena, 1984)

Il supermercato compie 610 anni

[Tratto dall’Arena]

LEGNAGO – Fu Gian Galeazzo Visconti nel ’300 a stabilire che si svolgesse ogni sabato

 

• Il progenitore degli attuali grandi magazzini era e rimane il più importante centro di vendita della Bassa • Anzi nel 1438 faceva invidia persino a Verona, che così si lamentava con il Senato della Repubblica Veneta: «I legnaghesi al presente son ricchi e di giorni in giorno più ricchi diventano» • Lo frequentavano personaggi vecchi e nuovi • Il «picia qua la man» del mediatore • Le madonnine di gesso del «Mando» che dovevano restare incartate fino a casa per «otener la grassia» • Leopoldo Cavazzana e la «povera ragassa sedota e abandonata», inventata per smerciare callifughi • Le «tle clavatte per una lila» vendute dai cinesi che alloggiavano all’albergo Cavattoni • Il «torototela»

 

Quest’anno il mercato di Legnago compie la bellezza di 610 anni. Anniversario importante anche perché Gian Galeazzo Visconti, con sua patente del 13 aprile 1394, rimise in vigore il mercato, stabilendo che fosse tenuto al sabato.

Anche in precedenza Legnago era stato un conosciuto centro di affari. Già prima della conquista romana qui si incrociarono varie popolazioni come provano i resti di palafitte semi-fossilizzate (trovate nel 1934 durante i lavori di rinforzo degli argini dell’Adige) e terracotte dell’età del bronzo.

Dalla metà del V secolo alla metà del II secolo a.C. questa parte di territorio veronese doveva essere già convenientemente bonificata; vi regnava un’adeguata vita agricola. Nei primi anni della bonifica nei dossi della valle (accampamenti militari romani) furono raccolte monete e nelle esplorazioni delle piccole necropoli si riscontra sovente la presenza di suppellettili e di ceramica varia.

Dopo l’impaludamento della rotta d’Adige del 589, al ritirarsi delle acque rimasero poche terre coltivabili lungo il nuovo corso del fiume, arginato nel letto attuale dai Benedettini. I primi nuclei abitati ricomparvero a ridosso degli argini del fiume (come Legnago, Porto, Angiari, Vigo, Villabartolomea, Carpi, Begosso, Castagnaro).

A poco a poco, il villaggio su palafitte divenne paese ed emerse sui centri vicini; il fiume venne attraversato da un ponte di legno a difesa del quale fu eretto un castello (uno a Legnago e uno a Porto). Tale punto strategico con il ponte e il suo fiume segnò dunque il destino di Legnago, ma certamente fu il mercato a dare incremento e far prosperare l’Economia e il commercio.

Al porto sul fiume approdavano le imbarcazioni provenienti dall’Adriatico con carichi soprattutto di sale e pesce della laguna, olio, vettovaglie di prima necessità. Da Legnago partivano carni, prodotti dell’artigianato locale (seta e ceramiche), legname tagliato nei boschi e vari prodotti dell’agricoltura.

Erano tanti gli affari conclusi che c’era perfino un barcone apposito, di proprietà del Comune, per il trasporto della merce venduta per Verona e gli altri centri rivieraschi. Nel 1438 Legnago era già così ricca e il suo mercato così famoso da far invidia a Verona. Di ciò i veronesi si lamentarono presso il Senato della Repubblica Veneta e scrivevano: «I legnaghesi al presente son ricchi e di giorno in giorno più ricchi diventano, godendo di molti privilegi e grazie di emolumenti straordinari», e per ciò i veronesi chiedevano l’abolizione di tali privilegi, l’imposizione di nuove tasse.

Eppure la prosperità odierna è il frutto conseguente di tale remoto sviluppo, della laboriosità dei suoi artigiani, delle genti che vissero amorosamente nella cittadella di allora. E se è sempre stato fiorentissimo, il mercato del sabato fu anche pittoresco: oltre ai mercanti, ai mediatori e compratori convenivano sempre caratteristici personaggi che con i loro mestieri popolari davano colore e vivacità all’ambiente.

Ogni sabato, nei borghi e nei vicoli del centro cittadino, lo spettacolo del mercato si ripete dunque da secoli. Qui gli uomini d’affari sono i primi attori. Portano il giacchettone, la lunga sciarpa a collo, si soffiano il naso rumorosamente, tossiscono, si tirano per la giacca. Il «picia qua la man» del mediatore, dai pomelli accesi, che contratta la vendita del podere o della casetta, è la stessa voce che nel medesimo punto contrattava decenni e decenni fa.

Venivano quel giorno i venditori ambulanti con fagotti e valigie rattoppate legate sul manubrio della bicicletta. C’era un tempo il simpaticissimo Armando Protti, «el Mando», con un grosso cartoccio di madonnine fatte di gesso: per le frequenti scosse ricevute, quasi tutte erano mutilate di mani o di braccia. Vendeva quelle incartate e raccomandava alla buona massaia di tenerle bene avvolte sino a casa «se la vol otegner la grassia». Poi «el Mando» non si vedeva più sino alla nuova stagione…

Ricordo con un brivido di ammirazione, di un uomo che mangiava i vetri rotti e sputava lingue di fuoco dalla bocca, o di un altro con braccialetti di cuoio ai polsi e braccia tatuate che spezzava una catena di ferro stretta intorno al petto solo gonfiando i muscoli del torace.

Parecchia attenzione offriva il gioco dei tre «bussolotti», maneggiati con impareggiabile destrezza da un distinto giocoliere. La sua astuzia consisteva nel fra credere agli astanti in quale «bussolotto» nascondeva il misterioso dado. Tra la gente emergeva il consueto «compare» che puntava e raccoglieva poi le lirette messe sul banco dei vari scommettitori stralunati dalla gran voglia di vincere.

In questo piccolo schedario della memoria dei «liberi professionisti della strada» non dimentico un pellegrino di paese che intratteneva la gente con le sue canzoni rievocanti nozze e tragedie, battaglie e commedie. Era «Poldo», Leopoldo Cavazzana, che vendeva erbe mediche, callifughi, saponi e lamette. Richiamava la gente stornellando antiche storie di ignoti personaggi dipinti su un grande pannello di legno, diviso a scomparti: «Nel primo quadro i loro signori possono vedere la povera ragassa sedota e abandonata, scaciata dal padre…». Al secondo e al terzo quadro la gente era già attratta dal racconto ed anche, infine, soddisfatta delle compere.

La gioia dei ragazzi era un vecchietto dal volto rossiccio; si presentava per le vie portando, fissato ad un’asta, un goffo fantoccio che manovrava mediante la tirata di un cordoncino, cantando la filastrocca «to-ro-to-te-la» e sorridendo alla generosità dei passanti.

Durante l’estate venivano gruppi di cinesi (alloggiavano all’albergo Cavattoni) e s’intrattenevano a Legnago per un buon mese. Uscivano verso mezzogiorno e prima di cena, quando il flusso della gente era maggiore, per vendere sgargiantissime cravatte. La loro vocina tagliente si spargeva per la via: «Tle clavatte per una lila». Suonavano tutti i campanelli delle case. Al mercato sostavano, durante la mattinata, agli angoli delle vie centrali; al pomeriggio sugli ingressi delle fabbriche; poi a sera li ritrovavi davanti il cinema o al «Paglia».

Fra i tanti personaggi del mercato ricordo il particolare canto di una giovane donna accompagnata da un uomo. Lei era alta, bruna, con un fiore nei capelli; cantava vicino al monumento o al fresco dei portichetti addossati al Torrione. Stavano in piedi in mezzo ad un gran cerchio di militari, contadini, massaie e domestiche. Fra una canzone e l’altra il suo compagno passava tra gli ammiratori a offrire fogli, gialli e color rosa, delle ultime canzoni: «Valencia», «Parlami d’amore Mariù»…

La continuità del mercato che affonda le sue origini in tempi lontani costituisce la garanzia per lo sviluppo maggiore. Anche perché, dopo sei secoli, il mercato di Legnago rimane sempre il più frequentato della Bassa.

Ernesto Berro


Mercato delle «seole»

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Oltre al mercato del sabato in piazza Garibaldi, a Legnago c’era anche quello delle cipolle e dell’aglio. Si teneva, come mostra la foto, in piazza Vittorio Emanuele II, ogni venerdì, da giugno a novembre. La più ricercata era la cipolla «ciozota», coltivata appunto dagli ortolani di Chioggia. (raccolta museo Fioroni)


Piazza Garibaldi nel 1900…

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Piazza Garibaldi di Legnago in un sabato 1900, durante il mercato. Gli acquirenti arrivavano dagli altri centri della Bassa col biroccino. (raccolta museo Fioroni)

…e la stessa piazza sabato

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Lo stesso mercato di piazza Garibaldi fotografato sabato scorso. Sono cambiati i vestiti, i prodotti, i volti della gente, ma l’importanza del mercato è inalterata. (foto Malaffo)

L’allomorfo dell’articolo determinativo dopo consonante nella tradizione letteraria italiana

La distribuzione degli allomorfi dell’articolo determinativo maschile in italiano ha subíto alcune variazioni nel corso dei secoli. Gli accademici della crusca, fedeli all’ideale puristico ispirato alla lingua dei grandi autori toscani del Trecento, prescrissero per lungo tempo l’uso delle forme lo e (g)li dopo parola terminante in consonante: es. «per lo contrario».

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«Il prima possibile» è corretto? Forse. Ma è cattivo italiano.

Una scheda dell’Accademia della Crusca del 22 febbraio 2012 esamina la locuzione avverbiale il prima possibile. Riguardo alla sua accettabilità, l’autrice, Raffaella Setti, scrive: «non abbiamo nessun dubbio a giudicarla del tutto corretta».

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Abbiamo davvero bisogno di «selfie»?

autoscattoC’è una parola che, negli ultimi dodici mesi, ha spopolato sui mezzi d’informazione. È selfie, eletta parola dell’anno dall’Oxford Dictionary. Il sostantivo designa lo scatto fatto a sé stessi con telefonini intelligenti (iPhone e simili). Di selfie s’è occupata anche l’Accademia della Crusca, che ne ha ricostruito la storia dell’uso nella nostra lingua.

La prima attestazione giornalistica risalirebbe alla fine del 2012, e sarebbe comparsa sul sito della rivista Vanity Fair (grassetto mio):

[…] siamo diventati tutti un po’ fanatici del fare e farci foto, consumando i polpastrelli in un pullulare di autoscatti che gli americani hanno ribattezzato «selfie» […]

Se è vero che è questa la primissima apparizione del forestierismo in italiano, possiamo fare qualche riflessione. La frase in esame tratta — in maniera un po’ frivola — la voga del farsi foto e, a questo riguardo, usa significativamente la parola autoscatti, anche nel titolo. Ma, evidentemente, una moda trae legittimità e slancio se ottiene l’approvazione dello Stato che, da decenni, esercita in tutto il mondo il suo «potere morbido»: gli Stati Uniti.

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L’anafonesi toscana

L’anafonesi è un fenomeno fonetico tipico, nel Medioevo, del solo fiorentino e del toscano occidentale, per cui le ĭ e le ŭ latine si sviluppano in í e ú, invece che in é e ó, se seguite da consonanti palatali come [ɲ] e [ʎ] o da [ŋ] (nasale velare). È una delle principali caratteristiche fonetiche che mostrano l’origine fiorentina (e toscana) dell’italiano. Leggi il seguito di questo post »